Without much fuss and in coincidence with yesterday’s gig at Zurla Jazz Spring, we’ve celebrated our 10th anniversary! In front of a nice, empathic crowd the new quintet line up played two full sets of music including old, recent and brand new material. That’s all for now. Stay tuned!
La riscoperta e la rilettura della cultura e della musica afro-americana è al centro del nuovo album dei Roots Magic. Ne parlano due componenti della band, Alberto Popolla e Fabrizio Spera
Un avventuroso viaggio nella cultura afro-americana. Protagonisti sono i Roots Magic, un collettivo di musicisti Jazz di stanza a Roma, che negli ultimi anni ha sviluppato un proprio preciso percorso artistico, profondamente radicato nell’eredità della musica afro-americana, in una fusione coerente tra le radici che affondano nel blues ancestrale più antico e rurale (il blues del Delta di Charley Patton, Skip James e Blind Willie Johnson) e si sviluppano lungo le coordinate di una “tradizione di avanguardia” a cavallo tra sperimentazione e free jazz, che parte da lontano, dagli anni Sessanta e Settanta lungo il percorso tracciato da figure storiche come quelle di Eric Dolphy e Ornette Coleman, Sun Ra, l’Art Ensemble of Chicago, Julius Hemphill, la cui influenza si estende fino ai giorni nostri. In occasione della pubblicazione del loro quarto album – Old Long Road (etichetta Clean Feed) – abbiamo incontrato Alberto Popolla, clarinettista e polistrumentista, e Fabrizio Spera, batterista, membri fondatori della band sin dall’ormai lontano 2014.
La formula costitutiva della band, ovvero quella di mescolare il blues rurale delle origini con il jazz contemporaneo, sembra proseguire in questo nuovo disco. Quali sono le novità in questo nuovo lavoro?
La prima novità rispetto al passato nasce da un nuovo approccio compositivo – racconta Fabrizio Spera – mentre nei tre dischi precedenti la maggior parte dei brani era costituita da rivisitazioni o riscritture di altri compositori, in questo nuovo album abbiamo finalmente raggiunto un nuovo equilibrio tra i pezzi originali, a firma collettiva dell’intero gruppo, e le reinterpretazioni di brani altrui. In particolare – sottolinea Alberto Popolla – la linea di continuità con i lavori precedenti riguarda il nostro approccio complessivo non solo alla musica, ma a tutta la storia politica, sociale e culturale del popolo afro-americano in tutte le sue innumerevoli sfaccettature. Infatti già il precedente album (Take a Root Among The Stars del 2020) riportava uno specifico omaggio alla scrittrice Octavia E. Butler, e anche in questo nuovo lavoro ci sono diversi brani originali dedicati a personalità letterarie come Tony Morrison, Z.Z, Pacher e Benjamin Zephaniah, giovane poeta, scrittore ed attivista britannico di origini giamaicane. Altri brani originali hanno invece riferimenti più specificamente, ma non esclusivamente, musicali, come “Blue Lines” dedicato alla figura fondamentale di Muhal Richard Abrahams, che oltre che musicista, è stato operatore culturale e sociale, vero faro e catalizzatore di tutta la scena musicale dell’avanguardia Jazz a Chicago a partire dagli anni Sessanta e Settanta come fondatore dell’associazione Aacm e mentore dell’Art ensemble of Chicago. “Amber” è invece dedicato al violoncellista Abdul Wadud, esponente storico delle avanguardie jazzistiche.
Un’operazione che sottolinea ancora una volta come il legame con le radici del blues resta il “centro di gravità permanente” da cui partire per il futuro.
Come detto – prosegue Fabrizio –noi facciamo continuo riferimento al blues in senso lato, ovvero a tutta la storia della cultura afro-americana, e ripercorrere e riprendere i fili di quella storia resta per noi un’esigenza fondamentale. Inoltre – prosegue Alberto – abbiamo sentito l’esigenza di aprire finalmente una porta verso l’universo femminile, andando a recuperare la figura della grande Bessie Smith – “l’Imperatrice del blues” – con il brano “Long Old Road”, che dà il titolo all’album, di cui è autrice oltre che straordinaria interprete. Si tratta quindi di un passaggio per noi assai significativo, in quanto per la prima volta inseriamo in repertorio un brano che fa riferimento ad una fase del blues jazzistico urbano già più evoluto rispetto al blues rurale cui abbiamo sempre fatto finora riferimento.
Il gruppo, nato come quartetto, con i fondatori – Alberto Popolla ai clarinetti, Enrico De Fabritiis ai sassofoni, Gianfranco Tedeschi contrabbasso e Fabrizio Spera alla batteria – nel corso degli ultimi dischi si è spesso allargato a musicisti ospiti, ed ora si presenta ormai stabilmente come un sestetto, con Eugenio Colombo al sax soprano e flauto e Francesco Lo Cascio al vibrafono. Come è avvenuto questo cambiamento?
L’interesse e l’apertura all’inserimento di musicisti ospiti – ricorda Fabrizio – sono sempre stati presenti nei nostri dischi, anche se in maniera occasionale. In particolare, nel disco precedente, nel brano di apertura (“Frankiphone Blues”) è avvenuto l’inserimento di Eugenio Colombo e Francesco Lo Cascio. Va sottolineato – aggiunge Alberto – che la presenza di due nuove voci ha creato un nuovo suono complessivo del gruppo, sicuramente più aperto e con una line-up dei fiati più ampia e variegata, grazie alla presenza di Eugenio, figura storica dell’avanguardia jazzistica in Europa, che con il suo sax soprano e flauto ha fornito nuovi colori all’ensemble. L’altra grossa novità è, per la prima volta, l’inserimento di uno strumento armonico che sorregge le linee melodiche, come il vibrafono di Francesco Lo Cascio. La presenza di flauto e vibrafono inoltre crea un giusto mix con il suono più secco e ruvido del quartetto originale; pertanto, questa nuova varietà timbrica è in grado di addolcire il suono del gruppo, aprendo nuove strade e nuove prospettive alla nostra musica. Inoltre l’idea del sestetto è anche legata ad un evento – il Festival di Lisbona dell’agosto 2021 – per il quale l’organizzazione del festival aveva specificatamente richiesto questa formazione, e quindi tutto il lavoro fatto insieme per poter amalgamare il gruppo ha contribuito a creare quella sintonia umana, oltre che artistica, che ha trasformato definitivamente il sestetto in un gruppo ormai stabile.
L’Africa, come elemento ritmico vitale, resta una delle fondamentali fonti di ispirazione nella vostra musica, come avete approfondito la conoscenza delle radici africane?
In realtà – chiarisce Fabrizio – tutti noi ci siamo avvicinati alla musica di origine africana attraverso il jazz ed in generale attraverso l’approccio all’Africa che ha avuto tutta la tradizione afro-americana. Come sappiamo i jazzisti nero-americani, fino agli anni Cinquanta-Sessanta, hanno descritto e cantato un’Africa mai vista veramente da vicino, anzi fino agli anni Cinquanta hanno vagheggiato in maniera spesso fantasiosa un’Africa immaginaria e di fatto irreale, a volte addirittura un’Africa “da cartolina”, anche se con esiti artistici altissimi, basti pensare al leggendario “jungle sound” dell’orchestra di Duke Ellington, che a ben vedere di autenticamente africano aveva solo un appeal esotico ed estetizzante. Solo a partire dalla fine degli anni Sessanta – aggiunge Alberto – quando i jazzisti neri più impegnati tentarono una sorta di “ritorno all’Africa”, si resero conto che il divario culturale creatosi nell’arco di tre secoli, dai tempi della schiavitù ad oggi, aveva creato una distanza ormai difficilmente colmabile. C’è un rinnovato interesse nell’evoluzione del jazz di oggi, dovuto soprattutto ad una iniezione di vitalità e di riscoperta delle radici etniche che sta caratterizzando ad esempio la nuova scena caraibico – inglese con artisti come Shabaka Huthcings o Anthony Joseph. Cosa pensate di queste nuove tendenze?
Anche se il paragone può essere corretto, in verità – precisa Fabrizio – noi ci siamo sempre mossi e continuiamo a muoverci autonomamente in maniera istintiva e spontanea, senza sentirci per questo parte di questo o quel movimento. Non solo in Inghilterra – precisa Alberto – ma anche in America c’è un ampio movimento di riscoperta del “groove” e dell’approccio ritmico “africano”, e in questo senso potremmo definirci un po’ antesignani di questa tendenza che noi ormai perseguiamo dal 2014. Inoltre – prosegue Alberto – va sottolineato che il blues rurale cui noi abbiamo fatto riferimento, storicamente è stato riscoperto a posteriori essenzialmente dai musicisti rock, mentre, salvo rarissime eccezioni, non è stato mai preso in considerazione in ambito jazzistico, probabilmente per la sua semplicità armonica, che i musicisti più “colti” giudicavano troppo “povera” per poter fornire spunti per uno sviluppo più complesso e sofisticato. In questo momento, senza falsa modestia, noi siamo gli unici ad aver avuto questo approccio diretto con le radici del blues del Delta. Al di là del disco, la vostra musica è caratterizzata da un forte e coinvolgente impatto sonoro dal vivo.
È sicuramente vero – conclude Fabrizio – la nostra musica pur facendo riferimento a territori vicini al free jazz, mantiene sempre una cornice ritmico-armonica ben definita ed una certa “cantabilità” nell’esposizione dei temi. Ne abbiamo avuto conferma diretta un paio di anni fa al Busker Festival di Palermo, quando, sulla piazza del mercato della Vucciria, siamo riusciti a coinvolgere ed avere un riscontro entusiastico e del tutto inaspettato dal folto pubblico presente, un pubblico sicuramente al di fuori della cerchia dei classici appassionati di jazz.
Come secondo appuntamento del programma primaverile, è salita sul palco del Pinocchio Live Jazz una delle formazioni predilette dal pubblico del jazz club fiorentino, Roots Magic, per presentare Long Old Road, il suo ultimo lavoro appena uscito per Clean Feed.
Originariamente un quartetto composto dai clarinetti di Alberto Popolla e i sax di Errico De Fabritiis sostenuti dal contrabbasso di Gianfranco Tedeschi e dalla batteria di Fabrizio Spera, l’ensemble si è ormai stabilmente allargato a sestetto includendo due musicisti già ospitati nel precedente album Taking Root Among the Stars: Eugenio Colombo a sax soprano e flauto, e Francesco Lo Cascio al vibrafono. L’ampliamento è andato a tutto vantaggio della tavolozza sonora, adesso davvero molto variegata, senza contare che le straordinarie qualità tecniche e creative dei due neoentrati arricchiscono anche la costruzione delle trame.
Com’è nello stile della formazione, il programma (che seguiva la falsariga di quello del disco, con alcuni estratti dai precedenti) mescolava in modo coerentissimo composizioni originali e brani tratti dalle origini del jazz e del blues. Sono così passati pezzi di Bessie Smith, uno dei quali titola l’album, Rosa Lee Hill e Call Massey, accanto ad altri ispirati da figure non meno importanti della storia della musica nera, il tutto riletto in modo contemporaneo: le ance di Popolla e De Fabritiis a disegnare i temi con grande intensità dinamica, ora all’unisono e ora in contrappunto, sostenuti dalla forte spinta della ritmica, con ampi spazi di brillante e imprevedibile improvvisazione dettata da Colombo, al centro della scena, e screziata dagli interventi del vibrafono di Lo Cascio, ma nella quale tutti trovavano con grande libertà spazi di creativa espressività.
Da sottolineare due interessantissimi contrasti che hanno caratterizzato la performance: da un lato quello timbrico tra le tre ance, incentivato dall’uso del soprano ricurvo da parte di Colombo e dal frequente ricorrere al clarinetto basso e al baritono da parte rispettivamente di Popolla e De Fabritiis; dall’altro quello musicale tra la compatta potenza sonora espressa da ance e ritmica e gli scintillanti interventi di flauto e vibrafono.
Tutti bravissimi i protagonisti, tecnicamente ma anche nell’interazione all’interno di una musica molto serrata e tuttavia anche gioiosa e contagiosamente coinvolgente, come dimostrato dalla risposta dell’ampio pubblico presente alla serata. Una formazione che a quasi dieci anni dal suo primo lavoro continua a crescere e affascinare.
We’re happy to inform you that we just came from a three day long recording session at Abbey Rocchi studio in Rome. A quite intense session engineered by Tommaso Cancellieri which produced enough material for our next album, the first one featuring the actual extended line up. The music will be mixed next month at Jambona Lab in Livorno and the album will be out on Clean Feed in March 2023, so Just stay tuned!!!
Felice e numerosissimo è il pubblico che sta affollando la Casa del Jazz in serate (11-15 febbraio) di valore: Roots Magic, il pianista Greg Burk in quintetto, il duo con l’altosax Tim Berne ed il pianista Matt Mitchell e, infine, Craig Taborn. (…) Atrettanto originale è la musica del quartetto Roots Magic (Alberto Popolla ed Errico De Fabritiis, ance; Gianfranco Tedeschi, contrabbasso; Fabrizio Spera, batteria) che a Roma ha presentato, prima nazionale, la versione allargata con Eugenio Colombo (sax soprano, flauto) e Francesco Lo Cascio (vibrafono). Roots Magic sestetto ha debuttato nell’agosto 2021 alla rassegna “Jazz em Agosto” di Lisbona e i brani eseguiti alla Casa del Jazz – con un criterio antologico rispetto ai due Cd editi per la Cleanfeed – sono stati appositamente arrangiati per sfruttare le trame timbrico-ritmiche del vibrafono e il soprano come terzo fiato (al flauto Colombo ha regalato ispiratissimi assolo). Roots Magic mantiene intatta la sua vocazione a rileggere e ad attualizzare il blues, pescando in quello più ancestrale e remoto (Geeshie Wiley, Skip James, Charley Patton) come nella “new wave” dei decenni ‘60 e ‘70 (Marion Brown, Kalaparusha Ken McIntyre). Il brillante collettivo romano crea una musica spesso poliritmica e polifonica, capace di generare una fortissima tensione sonoro-emotiva, musica in cui tutti sono parte di un lavoro di squadra che esalta il “suono” dei singoli in una dimensione comunitaria. Concerto sold-out, quasi liberatorio, per un pubblico entusiasta e partecipe.
Italian quartet Roots Magic have recorded on Clean Feed, most recently on the compelling Take Root Among the Stars. The festival is their second appearance as a sextet, with expanded arrangements featuring Alberto Popolla (clarinets), Errico De Fabritiis (alto and baritone saxophone), Eugenio Colombo (flute and soprano saxophone), Francesco Lo Cascio (vibraphone), Gianfranco Tedeschi (bass) and Fabrizio Spera (drums). Their repertoire is a distinctive and welcome mix of classic blues by such as Skip James and Charley Patton, blues-infused free jazz and original compositions indebted to those genres – in total, a thoughtful and compelling concept. The set included two pieces from Take Root, Skip James’s electrifying “Devil Got My Woman” and Maurice McIntyre’s ecstatic “Humility In The Light Of The Creator”. The first of these begins with a duet between wispy flute and bass transformed into full on jazz rock. The band dedicates McIntyre’s piece with its haunting a cappella bass clarinet intro and furious finale, to the late percussionist Milford Graves. “Run As Slow As You Can” is a hypnotic original featuring baritone saxophone and bass clarinet, transmuting a captivating groove into freedom. “Blue Lives” is a new dedication to Muhal Richard Abrams; Colombo’s plangent flute solo featured multiphonic buzzing, and a compelling contrapuntal duet with vibraharp. The gentle “November Cotton Flower” by Marion Brown is a bucolic classic, with a free introduction and lilting rhythm. In this spectacular performance the sextet gives the impression of a much bigger band, and makes for a fitting festival finale.
Martin Longley – Jazzwise, Sept. 2021
Roots Magic arrived from Italy, firstly with a more traditionally avant garde jazz, rooted in the 1960s and 70s, secondly with a wily sense of humour, absurdist yet dark. Their multiple horn-swapping also lent an air of experimental folk anarchy, even though the numbers were sharply organised. The clarinets, saxophones, flutes, vibraphone, bass and drums combined to craft a filmic, episodic nature, brash and bright. At a couple of points they were firing on bass clarinet and baritone saxophone. At others their music sounded like skipping Celtic folk. They made direct musical dedications to Milford Graves and Muhal Richard Abrams, making a rousing funeral pyre to bid farewell, loud and magnificent, they closed out the festival with a kind of nostalgic extremism.
Para o encerramento ficou guardado outro dos momentos mais esperados. Ao palco do Grande Auditório subiu o coletivo romano Roots Magic (na ocasião configurado para sexteto), responsável por empreender uma fantástica missão: pegar nos elementos fundacionais dos blues mais profundos e da música popular norte-americana e transportá-los, qual máquina do tempo, para o outro lado do Atlântico no século XXI.
Os Roots Magic são Alberto Popolla (clarinetes), Errico De Fabritiis (saxofones alto e barítono), Gianfranco Tedeschi (contrabaixo) e Fabrizio Spera (bateria), a que se juntam, como convidados habituais, Eugenio Colombo (flauta e saxofone soprano) e Francesco Lo Cascio (vibrafone e percussões). Os blues emergem aqui na plenitude da sua africanidade e espiritualidade, interpelados criativamente por uma abordagem devedora do free jazz, movimento libertário que nos anos 1960 integrou com orgulho muitas dessas referências como arma contra a discriminação racial e pelos direitos cívicos da população negra. Os Roots Magic são isso mesmo: um mergulho na magia das raízes, na fonte primordial, incrível celebração dos “deep blues” (não saudosista ou emulativa, pois o que fazem é processar jazzisticamente essas referências) de todo um legado negro que viajou para a América a partir de África, e se desenvolveu num contexto escravocrata e de trabalhos forçados nos campos de algodão, nas minas ou nos caminhos de ferro, interpretado por músicos que dele se apropriam e o transformam com paixão, proficiência técnica e um meticuloso conhecimento de causa, desafiando espaço e tempo.
Escutaram-se interpretações muito especiais de “Last Kind Words”, blues da obscura cantora e guitarrista Geshie Wiley, “Devil Got My Woman”, emblema de Skip James, da maravilhosa “November Cotton Flower”, de Marion Brown, e a não menos tocante leitura de “Humility in the Light of the Creator”, de Kalaparusha Maurice McIntyre, com vénia a Milford Graves, desaparecido em fevereiro deste ano. Ocasião também para escutar material novo como “Run As Slow As You Can” e “Blue Lines”, peça dedicada ao grande Muhal Richard Abrams. Numa era em que pululam negacionistas do racismo e da discriminação, esta música é um grito de esperança que ressoa bem fundo. A grande música negra vista desta forma a partir do país de Salvini só pode ser motivo para exaltação. (A.B.)
Words by Sofia Teixeira – Bran Morringham.com – Pictures by Vera Marmelo – Gulbenkian Música
Roots Magic, aqui em formato de sexteto, encerraram o Jazz em Agosto 2021, na Fundação Calouste Gulbenkian. Bom trabalho de equipa, com dedicatórias especiais a alguns nomes emblemáticos e um olhar abrangente. Descontraído.
A mestria de cada um destes músicos, no entendimento que este projecto implica, passa por uma noção apurada de como defender uma voz própria sem trair a arquitectura global, como improvisar de forma viva e orgânica sem que isso provoque alguma disrupção face ao pano de fundo que faz as vezes de palco sonoro onde cada um deles actua. Designam-se Roots Magic e encerraram o Jazz em Agosto 2021, perfazendo uma espécie de moldura com o concerto de abertura do festival. É essa a magia das boas raízes, mesmo quando invisíveis, suportarem um crescimento saudável das ramificações emergentes.
Com três álbuns disponíveis na sempre atenta editora Clean Feed, os Roots Magic Passaram pelo Jazz im Goethe Garten, em 2017, e pelo Seixal Jazz, no ano seguinte, ambas as vezes em quarteto. Desta vez, a Alberto Popolla (clarinetes), Errico De Fabritiis (saxofone alto), Gianfranco Tedeschi (contrabaixo) e Fabrizio Spera (bateria) juntaram-se Francesco Lo Cascio (vibrafone) e Eugenio Colombo (flauta).
Assistimos a uma noite musical alimentada por uma dualidade consciente e sabiamente gerida, fazendo-nos passar de momentos de grande delicadeza, quase sempre mantidos pelo flautista Eugenio Colombo (colaborador habitual da Italian Instabile Orchestra), contando com a cumplicidade dos dois elementos da percussão, recorrendo sobejamente a sinos, metais, pequenos gongs e outros artefactos. O clima etéreo, a cadência de caravana em marcha, ganharam com essa opção. Contudo, a outra face da moeda foi a investida dos sopros, com Alberto Popolla a evidenciar alguma coordenação (como se via, por exemplo, nas passagens articuladas com Francesco Lo Cascio, ao qual instruía curtas indicações que pontuariam passagens). Colombo usou o saxofone soprano, no primeiro tema e no penúltimo, antes do encore.
Fabrizio Spera, que conta com uma lista impressionante de sumidades com quem já partilhou os palcos (incluindo Peter Kowald, Wadada Leo Smith, Butch Morris, ROVA, Tim Hodgkinson, Lol Coxhill, Alfred Harth, Evan Parker, Phil Minton, Alvin Curran ou Frank Gratkovski), mostrou-se sempre muito dinâmico, uma peça fundamental nessa transição entre os ambientes amenos e as dinâmicas mais possantes.
As linhas de orientação, traçaram rotas que denunciam passagens por África, Ásia, mas também os mares e ares do Pacífico, com uma base de latinidade, mais ou menos latente, em diversos momentos, acolhendo o ritmo para depois servirem de rampa de lançamento, recordando que, não apenas os blues, mas a o todo da espiritualidade negra que assombrou o Jazz, em especial na década de 60, não é um elemento de somenos nesta equação. O ritmo nunca foi renegado, num concerto que contou com passagens que poderiam remeter a memória para Cannoball Aderlely ou o New York Jazz Quartet
“Devil Got my Woman”, um blues originalmente composto e interpretado por Skip James, um dos músicos que esta formação homenageia em diversos momentos, e identifica como uma das suas influências seminais, foi um bom exemplo desse entendimento minucioso, que contemplou momentos onde a flauta de Colombo e o contrabaixo de Gianfranco Tedeschi vaguearam com subtileza, em prólogo à intervenção colectiva da gama de sopros, visitando até terrenos muito, muito próximos do jazz-rock, para tudo isso permitir chegar à tal improvisação, sem nunca macular a base rítmica.
De Marion Brown, saxofonista que integrou a gravação do histórico Ascension, de John Coltrane, trouxeram-nos “November Cotton Flower”, com reminiscências telúricas do sul americano e as suas plantações, teatralizadas numa discreta harmónica soprada por Errico De Fabritiis.
A herança de Chicago (ou não fosse de um dos seus mais ilustres representantes, justamente o Art Ensemble of Chicago, o mantra “great black music, ancient to the future”), assumiu-se e fulanizou-se em dois momentos altos do concerto, uma evocação a Muhal Richard Abrams, através do tema “Blue Lines”, e a Kalaparusha Maurice McIntyre, dedicando ao contrabaixista Milford Graves, falecido em Fevereiro deste ano, uma recriação do mítico “Humility in the Light of the Creator”, tema que titula o álbum de estreia do saxofonista, disco de 1969.
Um concerto muito interessante, repita-se, pela ligação que estabeleceu com a memória, embora de forma distinta do que os Broken Shadows fizeram na noite de abertura, porém, acima de tudo, pela forma orgânica como todos os elementos se relacionam e pelo respeito constante pelo ritmo, mesmo quando a voz é dada, em primeiro plano, a cada solista. Quando as raízes são de qualidade, devidamente acarinhadas, o jardim está seguro.
At the invitation of Rui Neves, artistic director of the Jazz em Agosto festival in Lisbon, Roots Magic will close the 37th edition of the festival presenting a new sextet version. With the addition of Eugenio Colombo – flute and soprano sax, and Francesco Lo Cascio – vibraphone and percussion, both already guests in “Take Root among the Stars” , the group’s sound will be enriched with different colors and new solutions. For the occasion, Roots Magic will showcase an anthological repertoire of old and new tunes arranged for this specific new ensemble.
From August 2021 the new Roots Magic sextet line up will be available for concerts in parallel with the original quartet.
Su invito di Rui Neves, direttore artistico del festival Jazz em Agosto di Lisbona, Roots Magic chiuderà la Trentasettesima edizione del festival presentando la sua nuova versione in sestetto. Con l’inserimento di Eugenio Colombo – flauto e sax soprano e Francesco Lo Cascio – vibrafono e percussioni, già ospiti nell’album “Take Root among the Stars”, il suono del gruppo si arricchirà di colori e soluzioni inedite. Per l’occasione verrà presentato un repertorio antologico basato su un’accurata selezione di vecchi e nuovi brani arrangiati per il nuovo organico.
A partire da Agosto 2021 Roots Magic nella sua nuova versione in sestetto sarà disponibile per concerti parallelamente a quella del quartetto originale.
This is to inform you that Roots Magic is slowly getting back on the road. After another long stop we’ll start playing live shows again. So it’s going to be a quite busy summer with both some local gigs and some festival appearances including the Ground Music festival in Brescia, and a great premiere at the Jazz Em Agosto in Lisbon where we’ll perform for the first time with a special sextet line up featuring Eugenio Colombo on flute and soprano sax, and Francesco Lo Cascio on vibes. So please check our concerts page for updates and stay tuned!
A new interview by Sandro Cerini published on the October issue of MusicaJazz.
Il linguaggio universale del Blues all’incrocio con la Creative Music
Ci ritroviamo dopo quattro anni ed è passata molta acqua sotto i ponti. Qual è lo stato dell’arte del gruppo? Nel corso di questi quattro anni, grazie ad un lavoro costante sul repertorio, sentiamo di aver maturato un approccio compositivo più organico, a poco a poco, grazie soprattutto ai concerti abbiamo sviluppato un suono realmente di gruppo e un “insieme” finalmente capace di integrare dinamiche e caratteri individuali. In tutto ciò, quattro anni possono essere niente. Il tempo della ricerca e dell’indagine sono fattori difficili da misurare. Seppur consapevoli di muoverci in una società che richiede continui cambiamenti preferiamo muoverci, secondo una nostra direzionalità. Indaghiamo modelli passati per leggere e interpretare il mondo che ci circonda.
Nella chiusura del precedente album, «Last Kind Words», una versione «quasi dub» di Bermuda Blues, di Henry Threadgill, sembrava preludere a un cambio di prospettiva. Mi sembra invece che le scelte artistiche siano rimaste sostanzialmente immutate. È cosi? È curioso che quel brano possa aver fatto pensare a possibili cambi di rotta. Forse per via degli effetti dub? In realtà si trattava di un brano molto coerente al nostro repertorio, dove il dub non rappresentava altro che una colorazione, un elemento stilistico suggerito dal gusto per certe sonorità di provenienza Giamaicana. Qualcosa che avremmo approfondito volentieri nel nuovo disco. L’album prevedeva infatti una versione, questa volta dichiaratamente dub, di un brano di Lee Perry, poi eliminato per problemi di durata, e ora pubblicato su Bandcamp. Tuttavia, pensiamo che il brano Karen On Monday, a cui è affidata la chiusura del nuovo album, lasci intendere aperture maggiori che non quelle di Bermuda Blues. Il pezzo di John Carter, nella nostra interpretazione «astratta», possiede infatti caratteristiche strutturali effettivamente inesplorate nei precedenti lavori.
In effetti ciò è vero. Che senso dobbiamo attribuire a questa ricerca di astrazione? E invece, l’approccio «giamaicano» di Cloak And Dagger deve intendersi come una via ancora possibile, o un qualcosa di definitivamente rinunciato?
L’approccio improvvisativo, adottato in “Karen on Monday” è parte integrante del nostro background. Tutti noi in periodi diversi abbiamo praticato un tipo di improvvisazione svincolata da idiomi Jazzistici e più protesa all’esplorazione di altri parametri, suono, timbro, spazio, rumore… in definitiva un’ulteriore carta ancora tutta da giocare nell’ambito di Roots Magic. L’inserimento dell’elemento “dub è invece frutto di una nostra passione per quel tipo di musica. Qualcosa che con il dovuto equilibrio e secondo il nostro solito approccio graduale alle cose, potrà ancora trovare spazio nella musica del gruppo.
Sembrerebbe quindi che tra le due anime che animavano il quartetto, quella improvvisativa e quella della forma, la seconda abbia alla fine definitivamente prevalso. Che ne pensate?
Ci sembra che almeno fin qui il rapporto fra composizione e improvvisazione abbia mantenuto un equilibrio più o meno costante. Fin dall’inizio la nostra proposta si è basata essenzialmente su un insieme di brani composti e parti improvvisate, sempre ben ancorate alla forma. Tuttavia, un’analisi più accurata dei tre lavori potrebbe rivelare che l’eventuale spostamento di equilibrio fra queste due componenti andrebbe però a favore dell’improvvisazione. Rispetto agli esordi, le forme dei brani sono ora più dilatate, e le zone aperte al loro interno sono proporzionalmente aumentate fino a culminare nel già citato Karen On Monday, un brano sostanzialmente improvvisato, e come abbiamo appena visto, secondo un approccio diverso.
I crediti di copertina sottolineano che in dei brani sono comprese parti composte da voi. Non è un procedimento del tutto usuale. Potete spiegare ai lettori come ne avete garantito l’integrazione?
Le nostre riletture hanno sempre incorporato elementi originali. L’integrazione di materiali diversi è di fatto un punto nodale del nostro lavoro. Una volta trascritte e arrangiate le parti tematiche, passiamo molto tempo a manipolare i materiali a disposizione. Semplicemente, questa volta, ci è sembrato giusto riconoscere quel lavoro accreditandolo fra le note del disco. Si tratta di una modalità sviluppata all’interno della nostra pratica compositiva e non escludiamo che in futuro si possa estendere in direzione di un repertorio sostanzialmente originale.
Non temete il rischio di una accentuata «repertorizzazione», soprattutto a fronte del continuo affinamento della vostra formula di gruppo e del costante elevamento delle competenze performative?
Non crediamo che l’indagine approfondita di un repertorio, nel nostro caso il Blues delle origini e il Jazz creativo degli anni Sessanta e Settanta, sia un limite. Crediamo invece che sia una grande ricchezza e siamo anche certi che l’affinamento dei modi e l’approfondimento dei materiali non possono che rafforzare la forma e il contenuto del nostro lavoro. Questa è un’esperienza che ci ha fatto crescere in questi anni e probabilmente continuerà a farci crescere in futuro.
Qual è il senso reale di una proposta come la vostra, oggi? In fondo sono sentieri che la «creative music» aveva già in gran parte battuto…
Verrebbe da chiedersi, chi, oggi, può conoscere il senso reale di una proposta. Quello che possiamo dire con franchezza è che i Roots Magic continuano a fare le cose in cui credono. Certamente non siamo i primi a trovare connessioni fra la radice Blues e le forme avanzate del Jazz creativo. Sappiamo di muoverci in un sentiero battuto, eppure sentiamo di aver trovato una nostra voce capace di distinguersi da altre. C’è da dire che il nostro particolare interesse per certe figure «arcaiche» come Charlie Patton o Skip James non ha veri e propri precedenti in ambito jazzistico. Se questi musicisti hanno lentamente acquisito un riconoscimento nel contesto della scena Folk-Blues e in alcuni casi del Rock, sono ancora del tutto ignorati negli ambiti del colto mondo del Jazz. In questi anni abbiamo notato come l’accostamento di certi nomi a quelli del Free Jazz storico provochi spesso degli interessanti cortocircuiti nel pubblico di derivazione Jazzistica.
Siete quindi fortemente convinti che la fusione di forme espressive proprie del blues rurale, trasposte nei nuovi contesti urbani e poi giunta a noi, sia una sorta di formula universale, valida per chiunque voglia proporla (in altre parole, che essa non richieda un radicamento culturale proprio e un vissuto)?
Nel nostro primo disco, al fine di chiarire la nostra posizione, inserimmo una citazione da Evan Parker: «le mie radici sono nel mio giradischi». Ovvero: siamo cresciuti attraverso l’ascolto di questa musica e ne sentiamo forte l’influenza al punto al punto di riconoscerci come culturalmente radicati in quella tradizione. Nel 2018, con nostra grande sorpresa, siamo stati invitati al Juke Joint Festival di Clarksdale in Mississippi, uno dei luoghi chiave nell’evoluzione di questa musica. Per intenderci, il luogo del leggendario incrocio dove Robert Johnson incontrò il diavolo in persona, a un passo dalle piantagioni Dockery dove è cresciuto Charlie Patton. In quei luoghi, a confronto con un pubblico nato in quella cultura, abbiamo potuto verificare l’autenticità della nostra proposta e abbiamo avuto la prova, ce ne fosse bisogno, che il Blues è di fatto un linguaggio universale.
Nel proporre un repertorio siffatto, esiste un aspetto che in qualche modo si possa definire di «committenza»? Per essere più chiari: si guarda a un pubblico?
Nel tempo abbiamo scoperto che la nostra musica è capace di coinvolgere un pubblico ampio e trasversale, e per noi questo è motivo di grande soddisfazione. Regalare emozioni anche a coloro che non sono necessariamente cultori di Blues, né tanto meno di Free Jazz, ci rende orgogliosi. Come ha detto Basilio Sulis, direttore del festival di Sant’Anna Arresi, la nostra proposta sembra avere una funzione propedeutica, avvicina il pubblico, lo rende curioso e di conseguenza apre mondi sconosciuti.
E nei brani in cui vi siete misurati con la necessità di un arricchimento timbrico (cosa già avvenuta in tutti i vostri dischi) in qualche modo vi siete sempre rivolti a compagni di viaggio già familiari. Non c’è l’esigenza di confrontarsi con esperienze del tutto diverse dalle vostre?
Idealmente abbiamo sempre sostenuto che una collaborazione dovrebbe essere motivata da rapporti umani oltre che artistici. Un principio già di per sé selettivo, a cui si aggiungono alcune difficoltà di tipo organizzativo. Data la musica del gruppo, un qualsiasi inserimento, di uno o più elementi esterni, implicherebbe un tempo di prove necessario al riadattamento di temi, arrangiamenti e strutture. Da qui, la necessità di un’organizzazione a supporto dell’operazione. In fondo Roots Magic è una piccola comunità che ha bisogno di lavoro costante e nel tempo, è per questo che generalmente ci rivolgiamo a persone vicine e che sappiamo disponibili. Ovviamente, ciò non esclude la possibilità di un tipo di collaborazione più complessa, a patto che questa venga sposata e supportata dalla struttura di un festival o di una rassegna.
Come avvengono i «recuperi»di ciò che entra nel vostro repertorio? È un fatto di ascolti abituali, che si trasfondono nella vostra esperienza di musicisti, oppure esiste in qualche modo uno spunto per così dire «filologico», che si fa specifica ricerca del particolare?
Generalmente si parte da suggerimenti dei singoli, seguiti poi da ascolti e riflessioni collettive. C’è una grande sintonia nel lavoro di ricerca del materiale, e l’intento filologico è assolutamente secondario. Prima di tutto viene il piacere di suonare e arrangiare alcuni brani e rendere così omaggio a certi autori.
E cosa comprendono i vostri ascolti attuali?
Alberto Popolla: ora sto ascoltando «Three», il nuovo lavoro dei Necks, «The Universe Inside» dei Dream Syndicate e «The Fantastic Mrs. 10» di Tim Berne’s Snakeoil. Gianfranco Tedeschi: sto ascoltando un cofanetto di Sam Jones con gruppi a suo nome e un violista compositore ed improvvisatore del 1600, Captain Tobias Hume. Errico De Fabritiis: i primi tre che mi vengono in mente sono John Coltrane «Concerts In Japan», Betty Davis «They Say I’m Different» e James Brandon Lewis «An Unruly Manifesto». Fabrizio Spera: Ted Curson «Urge», Horace Tapscott «Ancestral Echoes», Irreversible Entanglement «Who Sent You», Kim Suk Chul Ensemble «Shamanistic Ceremonies of the Eastern Seaboard», Hermeto Pascoal «Viajando Com O Som». Prince Far I “Cry Tuff Dub Encounter vol.3
Quali sono i vostri programmi futuri, anche come singoli?
Abbiamo da poco iniziato a lavorare su nuovi materiali in gran parte originali. Ma con un disco appena pubblicato, va da sé che la speranza maggiore sia quella di poter riprendere a suonare dal vivo, l’attività che più di tutte rappresenta la ragion d’essere di questa musica.
Alberto Popolla: appena prima del lockdown avevo messo in piedi un’orchestra di improvvisatori, Anarres Improrkestra, un gruppo che stava lavorando bene ed era pronto per alcuni concerti poi annullati a causa dell’emergenza. E poi c’è il mio progetto in solo, Really The Blues, tra libera improvvisazione e rilettura di classici del Blues e della musica afroamericana in generale.
Gianfranco Tedeschi: i miei programmi sono semplici cercare di vivere bene, continuare a studiare e continuare a fare concerti.
Errico De Fabritiis: vorrei citare Kammermusik, gruppo di improvvisazione con Giancarlo Schiaffini e Luca Tilli, con cui siamo al secondo lavoro per Setola di Maiale. Tengo molto anche al neonato progetto Vite da armadio, in cui oltre a suonare interpreto dei miei testi insieme a Fiora Blasi, attrice, e Giusi Bulotta, contrabbassista.
Fabrizio Spera: Oltra al gruppo Ossatura, a inizio anno ho ripreso a lavorare in trio con Tim Hodgkinson e Gandolfo Pagano. Prosegue poi la collaborazione con Marco Colonna col recentissimo Red Planet insieme a Edoardo Marraffa e Marco Zanotti.
After a good review of our new album, the fine folks at TomaJazz proposed an interview. Here’s the Spanish version https://www.tomajazz.com/web/?p=52324, and here below the Italian version.
La musica dal vivo, compreso il jazz, è una delle vittime della pandemia COVID-19. In che modo vi sta toccando? E al di là della vostra particolare situazione, che impatto ha avuto sulla scena musicale italiana?
Tra Marzo e Maggio 2020, durante la prima e per ora maggiore emergenza ci siamo trovati a dover accettare un lungo periodo di restrizioni. In un clima di distanza fisica e di conseguente overdose informatica, abbiamo continuato a lavorare individualmente, ognuno per se, nel silenzio fino ad allora sconosciuto della propria abitazione e del proprio quartiere. Una condizione nuova nella quale tutti abbiamo percepito un diverso rapporto con lo spazio e il tempo. Nel corso dei nostri incontri settimanali via Zoom abbiamo fatto il possibile per mandare avanti il lavoro curando quelle attività che in genere vengono risucchiate dal ritmo convulso della cosiddetta “normalità”. Abbiamo ascoltato e catalogato vecchie registrazioni, abbiamo montato e pubblicato materiali video, tutto ciò mentre assistevamo all’evolversi di un scenario tutt’altro che rassicurante. Abbiamo visto come l’inaspettata irruzione di un agente sconosciuto, esterno al consueto ordine di idee, può effettivamente mettere in crisi un intero sistema. Abbiamo assistito a come questa irruzione abbia improvvisamente accelerato il processo di maturazione di una serie di criticità sociali pregresse per poi esploderle trasversalmente a tutti i livelli. Insomma, un’esperienza non da poco. In questa condizione ancora tutta in divenire non possiamo fare altro che raccogliere il meglio, trasporlo alle nostre vite e possibilmente applicarlo alla nostra arte.
Con i club chiusi, la distanza di sicurezza, le mascherine… come prevedete il futuro del jazz nei prossimi anni?
Il futuro non è prevedibile, lo dimostra l’avvento di questa pandemia. Il settore della musica già in crisi rischia ora il crollo. La nostra musica si esprime al meglio quando è suonata dal vivo, di fronte a un pubblico che ascolta, e ora con le nuove norme, è naturale che saremo a lungo penalizzati. Difficile dire se quest’esperienza servirà ad una qualche riconsiderazione di quegli schemi, di quelle routine che alla luce di questa crisi appaiono ora come meccanismi insani. Difficile dire se saremo capaci a ridimensionare anche solo minimamente l’estremo dinamismo globale per tornare a porre l’attenzione sulla realtà delle nostre comunità locali. Sul piano istituzionale, ora più che mai c’è bisogno di interventi pubblici che supportino progetti, festival, rassegne, club ecc. Ma sopratutto c’è necessità di salari minimi garantiti per le persone che vivono di sola arte. La civile Europa sarà in grado di rispondere? In tutto ciò va detto che nel corso dell’estate qui in Italia grazie all’audacia di alcuni organizzatori, qualcosa ha ripreso a muoversi e anche noi siamo finalmente riusciti a risuonare più volte dal vivo. Ora la preoccupazione è per la tagione invernale e per l’incognita su come certe attività potranno essere gestite nei luoghi al chiuso.
Roots Magic è un nome davvero interessante. Da dove viene l’ispirazione per il nome del gruppo?
Il nome proviene dalla scoperta sul web di un libro intitolato “Hoodoo Herbs and Root Magic”, una sorta di manuale basato sull’esperienza magico misterica propria della tradizione culturale Afroamericana. Qualcosa di effettivamente lontano dalla nostra realtà ma proprio per questo densa di fascino e in stretta corrispondenza con il mondo espressivo a cui dichiaratamente ci ispiriamo.
Come è nata l’idea di mescolare il deep blues degli anni ’20 e ’30 con il free jazz?
All’origine di questo gruppo non c’è nulla di prestabilito. Tutto si è sviluppato spontaneamente attraverso la semplice messa in campo dei nostri interessi, ricerche e passioni. Abbiamo iniziato suonando musica nostra fino a quando un giorno decidemmo di arrangiare The Hard Blues di Julius Hemphill, un brano e un compositore a cui ci sentiamo particolarmente legati. Il piacere scaturito dal suonare quel pezzo ci ha spinto a proseguire in quella direzione e aprire così un nuovo percorso motivato dalla radice Blues. La connessione fra Blues delle origini e Jazz creativo si è sviluppata naturalmente e non esprime altro che la nostra passione per queste musiche, un qualcosa nato molto prima che ci riunissimo come gruppo.
Come funziona il processo in cui le classiche strutture del Delta blues si trasformano in composizioni più moderne? Come si svolge questo processo creativo?
Il Blues arcaico è un materiale potente e allo stesso tempo molto malleabile. Si presta ad essere modificato, arrangiato e riscritto pur mantenendo intatta la sua incredibile forza comunicativa. Di solito uno di noi si occupa della trascrizione del brano e ne propone un primo possibile arrangiamento che a sua volta diverrà oggetto di discussione e rielaborazione collettiva.
Nel vostro ultimo album, “Take Root Among the Stars”, lavorate con brani di Charley Patton, Phil Cohran, Skip James… Quali altri nomi vi ispirano per il futuro
Molto presto inizieremo a lavorare su materiali originali. Dopo tre album sentiamo l’esigenza di ristabilire le proporzioni tra l’attività di arrangiamento di pezzi altrui e il lavoro compositivo su materiali originali, senza però interferire con l’ispirazione e il riferimento alla matrice Afroamericana che ci ha caratterizzato fin qui. In generale non ci dispiacerebbe metter mano alla musica di alcune donne della prima ora come Ma Rainey e Bessie Smith e per quel che riguarda il repertorio più contemporaneo, l’attenzione potrebbe dirigersi su figure come Horace Tapscott e Wadada Leo Smith.
Quello che mi colpisce di questo album è come sia in grado di connettersi con il pubblico, senza dover necessariamente sapere nulla di blues o di jazz. Questo è qualcosa che si raggiunge anche nei vostri altri album: pensate che a volte il jazz pecchi il contrario? Che richieda un esercizio di “intellettualità”?
Una delle qualità di questo gruppo è effettivamente quella di riuscire a coinvolgere un pubblico ampio, trasversale e non necessariamente esperto. E’ la presenza del Blues e della sua vitalità che aiutano a superare le difficoltà di fruizione legate ad un linguaggio più complesso ed elaborato come il jazz. Va però detto che troppo spesso l’ascoltatore rischia di essere vittima del proprio pregiudizio. Spesso tende a porre una sorta di barriera difensiva rinunciando troppo facilmente sia al semplice piacere dell’ascolto, sia alla facoltà di elaborazione critica. Insomma crediamo che su questo punto, al confine fra queste due tendenze, musicisti e pubblico, nessuno escluso, dovrebbero trovare un loro equilibrio e un loro punto d’incontro.
Considerate la possibilità di un futuro album in cui partiate da composizioni moderne e che passino attraverso il filtro free che vi caratterizza?
Come già detto, in futuro inizieremo a lavorare su materiali di nostra composizione, tuttavia non è escluso l’inserimento in repertorio di autori e brani più vicini a noi. Tendiamo per nostra natura ad un approccio inclusivo, crediamo nella fluidità fra radici e futuro. Questa è da sempre una grande caratteristica di tutta la musica Afroamericana. Una qualità che spesso si contrappone con la tendenza Europea alla separazione non sempre motivata in categorie di genere, stile, tempo.
Quali sono i gruppi del panorama musicale italiano ed europeo che vi ispirano di più? Qualche gruppo o artista spagnolo che ha attirato la vostra attenzione?
In questi anni, la scena Italiana è molto cresciuta. Il numero di giovani e bravi musicisti apparsi sulla scena è impressionante. Ciclicamente in Europa assistiamo all’esplosione di alcuni fenomeni come l’attuale rivelazione soprattutto mediatica di una nuova generazione di jazzisti Britannici o il rinnovato fiorire della scena Scandinava. Senza fare nomi e classifiche possiamo certamente dire che la comunità è in netta espansione e che Roots Mgic è in buona compagnia.
Quali sono i vostri obiettivi per i prossimi anni?
Suonare il più possibile da vivo, elaborare un nuovo repertorio per un quarto album, allacciare nuove collaborazioni, ma per tutto questo c’è tempo, per ora ci godiamo Take Root Among the Stars!
Ai confini tra Sardegna e Jazz – 31 Agosto 2020 – 06 Settembre 2020
… Molto, molto meglio il finale con Roots Magic: il quartetto romano apre con una versione mesmerica di “Dark Was the Night, Cold Was the Ground” di Blind Willie Johnson, e sono brividi: l’idea di far sposare il blues ed il free è acuta e viene declinata in modo eccellente. Tra radici e magia, tra ieri e domani, ancient to the future come diceva l’Art Ensemble of Chicago, i quattro musicisti, sensibili e ispirati, si perdono nello spazio come la sonda Voyager su cui viaggia il disco con il leggendario blues del 1927, in un luogo dove presente, passato e futuro si fondono e si confondono in un’unica, sterminata, minacciosa e materna nebulosa. Sono tanti i nomi tirati in ballo nel concerto, da Julius Hemphill a Skip James, da Kalaparusha McIntyre a Olu Dara, sino a Milford Graves. Una lezione di storia per nulla polverosa ma vibrante ed energica: i dischi, pubblicati da Clean Feed (l’ultimo è Take Root among the Stars, fresco di uscita) andrebbero fatti ascoltare a chi crede che il free sia una musica che non arriva alle e dalle viscere. Ottima l’intesa tra Fabrizio Spera (batteria), Enrico De Fabritiis ( sassofoni), Alberto Popolla (clarinetti) e Gianfranco Tedeschi (contrabbasso), nell’attesa di ascoltare più materiale autografo da una band che in nove anni ha saputo perfezionare a oggi un meccanismo capace di marciare a pieno ritmo.