Con alle spalle un anno intenso, di esiti artistici assai felici (l’album «Hoodoo Blues & Roots Magic», sulla scia di recensioni tutte molto favorevoli, non soltanto in ambito italiano, si è piazzato nelle prime dieci posizioni del Top Jazz 2015, sia nella categoria «Disco italiano dell’anno», ove è nono, sia in quella «Gruppo italiano dell’anno», ove è settimo) la band romana (Errico De Fabritiis ai sax contralto e baritono, Alberto Popolla al clarinetto e clarinetto basso, Gianfranco Tedeschi al contrabbasso e Fabrizio Spera alla batteria e alle percussioni) si muove alla ricerca d’una meritatissima maggior fama, che permetta di eccedere la di- mensione concertistica meramente territoriale. In questo contesto si inquadra il mini-tour che la vedrà ad aprile visitare Milano (il 6, al 65 Metriquadri), Torino (il 7, al Cafè Des Artes) e Bologna (l’8, al Barazzo). Ma il concerto di Mentana è appartenuto ancora a una misura tutta intra-muros, considerati non soltanto i natali di Gianfranco Tedeschi ma anche il suo forte radicamento personale e culturale rispetto a una realtà locale che seppe esprimere negli anni Settanta una tra le prime – se non la prima – Scuole popolari di musica in Italia, con docenti del calibro di Giovanni Tommaso e Luis Bacalov, tra gli altri. E dunque l’atmosfera era tutta peculiare, di forte partecipazione, sebbene l’evento si indirizzasse a un pubblico di tipo «generalista», ricollegato com’era a festeggiamenti carnevaleschi. Ma il quartetto ha rispettato appieno le proprie caratteristiche espressive, confer- mando la capacità non comune di por- tare verso il pubblico una musica niente affatto compiaciuta di sé, gravida di umo- ri e foriera d’una capacità comunicativa per più versi esplosiva. Dopo un breve riscaldamento iniziale a base di Charley Patton con Down The Dirt Road, è venuto il vero e proprio «manifesto» di The Hard Blues, di Julius Hemphill, che costituisce per il gruppo una sorta di mojo (tanto per stare ai significati traslati dell’hoodoo, che la proposta dei quattro più o meno scherzosamente invoca). Di seguito un dittico dedicato alla morte, iniziato da Oh Death, sempre di Patton, resa in una ver- sione festante, di perfetto stile funerario New Orleans, e completato da una Dark Was The Night (di Blind Willie Johnson) scura e fumosa, indubbiamente uno dei picchi dell’esibizione, almeno sotto il profilo del puro coinvolgimento emotivo. Il pezzo tradizionale Frankie And Albert ha permesso di gestire la transizione verso l’ostentata riverenza espressa dal gruppo rispetto a un altro nume tutelare quale Sun Ra, attraverso una travolgente versione di A Call For All Demons, seguita ancora dall’innodico e coinvolgente cre- scendo di I Can’t Wait Till I Get Home di Olu Dara.
Estremamente significativa la proposta di chiusura ( se si esclude il bis finale di Bermuda Blues) che ha visto la giustapposizione di tradizione (Pee Wee Blues, di Pee Wee Russell) e innovazione (The Sunday Afternoon Jazz And Blues Society, di John Carter) nella storia del clarinetto, in un confronto intelligente e arguto, utilizzato quasi a mo’ di tesi e dissertazione finale, in cui i confini si confondono e gli assunti di partenza non sono poi così scontati, perché in fondo è nella tensione permanente tra la forma e la sua dissoluzione la ragion d’essere di questa musica (e perché, come ha ben osservato Tedeschi, è bello chiudersi nel- la gabbia ideale delle strutture se si pos- siede la chiave per uscirne, perché è vero che «se puoi uscire puoi tornare quando vuoi»). Dunque è questa la sfida per un gruppo che dimostra di avere idee chiare e consapevolezza assoluta delle conse- guenze determinate dalle proprie scelte, procedendo sicuro nell’allargamento del repertorio e nel consolidamento d’una forma espressiva affatto personale, con- fermandosi tra le realtà italiane più inte- ressanti del momento.