Intervista ai Roots Magic, freschi del secondo disco (Last Kind Words) per Clean Feed
Enrico Bettinello
http://www.giornaledellamusica.it/articoli/le-radici-e-la-storia-roots-magic
Giunti al secondo disco per la portoghese Clean Feed, i Roots Magic confermano di essere uno dei gruppi più intensi della nostra scena jazz. Il clarinettista Alberto Popolla, insieme al sassofonista Errico DeFabritiis, al contrabbasso di Gianfranco Tedeschi e alla batteria di Fabrizio Spera costituiscono infatti un formidabile combo che si muove nel solco della più rovente tradizione creativa nera.
Non a caso anche in Last Kind Words – questo il titolo del nuovo disco – i quattro (con ospiti come Luca Venitucci o Luca Tilli) rileggono con grande freschezza temi di Charley Patton, di Julius Hemphill, di Roscoe Mitchell, ma anche di Henry Threadgill. Musica dalle sane radici blues, che nasce dall’urlo, dall’anima, musica che in parte ha trovato una sua storicizzazione, ma che con i Roots Magic dimostra di essere sempre portatrice di una sana energia emotiva.
Per raccontarci la loro musica abbiamo incontrato i Roots Magic.
Come nasce il gruppo?
ALBERTO POPOLLA: «Il gruppo è nato circa quattro anni fa, ma la nostra amicizia e frequentazione musicale risale a molto tempo prima. All’inizio il repertorio era molto diverso, lavoravamo principalmente su composizioni originali e avevamo anche un pianista. Rimasti presto in quattro, e con un nuovo suono tutto da sperimentare, un giorno Fabrizio propose di lavorare su “The Hard Blues” di Julius Hemphill, ed è lì che è nata l’idea alla base del nostro repertorio attuale, dal grande piacere che provammo nel riarrangiare e suonare questo bellissimo brano».
Tra le cose che avete ripescato, c’è il Marion Brown di November Cotton Flower, un disco tutto sommato non conosciutissimo.
FABRIZIO SPERA: «Effettivamente “November Cotton Flower” proviene da uno dei suoi album meno noti e forse complessivamente più deboli. Eppure il fascino di quel tema di sole quattro note, unito all’ispirazione poetica proveniente dall’omonimo testo di Jean Toomer, ne fanno un brano, per noi, particolarmente significativo. Marion Brown è stato tra i primissimi musicisti di jazz che ebbi la fortuna di vedere dal vivo tra il 1979 e l’80. Ricordo che come quindicenne più avvezzo alla presenza scenica dei gruppi rock, rimasi particolarmente colpito dalla grande quiete e dall’estrema familiarità dell’uomo, e del suo stare in scena. Da lì in poi, la fascinazione per la sua musica non mi ha mai abbandonato».
Come nascono queste vostre scelte?
FABRIZIO SPERA: «La scelta di brani di Hemphill, Mitchell, Olu Dara e altri proviene essenzialmente dalla passione maturata negli anni per queste persone, per la loro storia e la loro musica. A volte l”ispirazione è rafforzata dall’esperienza diretta, come nel caso del pezzo di Hamiet Bluiett, la cui scelta ha a che fare con il ricordo di un concerto del World Saxophone Quartet (Hemphill, Lake, Murray, Bluiett) insieme a Max Roach, al teatro dell’Opera di Roma nell’82. Vi lascio immaginare l’effetto propulsivo di quell’unisono di quattro sassofoni e batteria».
Anagraficamente avete avuto modo di ascoltare spesso dal vivo i vari Hemphill, Carter, Bluiett, Mitchell, negli anni Ottanta, quando spesso erano in Italia?
FABRIZIO SPERA: «In Italia, tra gli anni Settanta e i primi Ottanta, molti di questi musicisti erano praticamente di casa. Li si poteva vedere frequentemente dal vivo, sia in situazione di piccoli club, che di grandi festival. La cosa interessante è che anche se d’avanguardia, raramente questi nomi venivano ghettizzati in programmi o contesti ad hoc. Molto spesso negli stessi cartelloni, figuravano sia i grandi del mainstream come Johnny Griffin, Phil Woods, Art Pepper, che i già maturi Sam Rivers, Don Cherry e Sun Ra, senza escludere i giovani leoni dell’avanguardia di allora, soprattutto quella proveniente da Chicago, St.Louis e New York. Club e teatri erano sempre molto affollati, la partecipazione del pubblico era, almeno apparentemente, attiva e rumorosa. Ricordo qualcuno che durante un’articolata presentazione di Joseph Jarman, dal palco di un teatro, si alzò chiedendo perentoriamente che l’organizzazione traducesse le parole di Jarman sul significato di Great Black Music. Oppure un gruppo di persone che immediatamente dopo un concerto di Braxton andò da lui chiedendo di descrivergli i suoi pensieri e le sue emozioni durante la performance».
Sia nel precedente lavoro che nel nuovo Last Kind Words, mi sembra infatti evidente che l’universo di riferimento sia quello nero, sia del blues che della linea di discendenza avanguardistica che passa per Chicago e Saint Louis. Come lavorate su questi materiali?
ALBERTO POPOLLA: «Il nostro lavoro è essenzialmente collettivo. Ascoltiamo insieme il materiale originale e scegliamo quello che ci convince di più. Poi uno di noi si incarica di trascrivere il brano e di formulare un primo arrangiamento, che poi, durante le prove, verrà modificato e spesso stravolto. Da questo punto di vista, il nostro, è un procedimento molto vicino a quello di un gruppo rock, per quantità e regolarità di prove e per l’elaborazione fortemente collettiva del materiale».
Qualche parola sul ruolo dei clarinetti in questa evoluzione del linguaggio nero…
ALBERTO POPOLLA: «Il clarinetto nel jazz risente ancora troppo della forte impronta lasciata dai grandi band leader del periodo swing, Goodman, Shaw, Herman. Le sonorità e l’estetica del clarinetto nel jazz sono spesso associati allo swing, al virtuosismo, al suono levigato e gentile. Tutto questo mette assolutamente in ombra il ruolo fondamentale avuto all’inizio della storia del jazz e del blues. Il clarinetto può anche avere un suono scuro, rabbioso, graffiante. Non a caso noi abbiamo recuperato il bellissimo The Sunday Afternoon Jazz and Blues Society di John Carter, uno dei pochi a suonare il clarinetto in un modo decisamente diverso dal modello classico. Nel nostro nuovo cd c’è “Pee Wee Blues” di Pee Wee Russell, un altro clarinettista che, seppur associato al jazz tradizionale, aveva un modo di suonare così particolare da essere lontano anni luce dal linguaggio dei clarinettisti swing. Questo discorso vale ovviamente per il clarinetto, ma non per il clarinetto basso che, curiosamente, ha avuto una storia radicalmente opposta al suo parente più famoso. Qui fu Dolphy a dare allo strumento la dignità di protagonista e non solo di comprimario. Ovvio che questo ha comportato poi un’evoluzione musicale differente per il clarinetto basso, strumento da sempre associato al jazz d’avanguardia».
Come è accaduta la collaborazione con la Clean Feed, per la quale siete uno dei pochissimi gruppi italiani a incidere?
ALBERTO POPOLLA: «La Clean Feed è stata la nostra prima scelta al momento di cercare una produzione possibilmente coerente al nostro progetto. Abbiamo spedito il materiale del nostro primo disco a Pedro Costa e lui ne è rimasto subito entusiasta, intervenendo attivamente anche nella scelta dei brani e alla composizione della scaletta finale. Visto il successo del primo disco, è stato naturale proseguire la collaborazione anche per Last Kind Words».
Nonostante l’ottima accoglienza del precedente disco, non vi vedo molto spesso nei cartelloni di festival e rassegne fuori Roma, come mai?
GIANFRANCO TEDESCHI: «Una delle funzioni primarie, dal mio punto di vista, dovrebbe essere la valorizzazione di nuove proposte musicali e la capacità di scovare nuovi talenti. Questo implica una competenza e una conoscenza del panorama musicale da parte del direttore artistico che si ottiene solo attraverso l’ascolto di materiale, la lettura di recensioni critiche, ma soprattutto la partecipazione ai concerti dal vivo. Questo accade in Italia? Molti direttori di festival, il più delle volte, sono interessati a far funzionare la singola edizione, diventano quindi un filtro tra le pressioni economiche e le preferenze spesso modaiole del pubblico. Quindi ci si rivolge spesso ad agenzie che vendono pacchetti di artisti affermati con un risparmio da un punto di vista organizzativo. Per questo si vedono gli stessi nomi in diversi festival.
Un altro ruolo sociale importante riguarda il pubblico. Un bel festival è quello che stimola, incuriosisce, provoca e stupisce con scelte nette e coraggiose. Quello che vedo spesso invece è cercare di arrivare alla fine del programma con un mix che accontenta il più possibile tutti. Quindi riguardo ai Roots Magic, oltre alla risposta iniziale, penso che gli organizzatori di festival (tranne rari casi) non sanno chi siano e non li abbiano mai sentiti né su disco né dal vivo. Forse non è un caso che, almeno per adesso, gli inviti sono giunti principalmente da festival all’estero».
Alberto, Errico e Gianfranco suonano anche nei Freexielanders, insieme a due musicisti “storici” della nostra musica di ricerca come Schiaffini e Colombo. Cosa vi lega, se qualcosa vi lega, a quella scena italiana più sperimentale?
ERRICO DE FABRITIIS: «A Roma, per chi come noi si interessa agli aspetti meno convenzionali del jazz, il rapporto con la storia è rappresentato da musicisti come Schiaffini, Colombo, e finché ha vissuto, dall’insostituibile Mario Schiano. Mi sono trasferito nella capitale a metà anni Ottanta e le prime esperienze e collaborazioni hanno avuto luogo con musicisti che orbitavano nell’ambito di Schiano. In questo percorso, inevitabilmente, fra le figure di riferimento c’erano Schiaffini e Colombo. Far parte dei Freexielanders è una naturale conseguenza del mio percorso musicale e umano».
Quali sono le esperienza musicali contemporanee che ti interessano di più, i colleghi – anche non italiani – con cui ti piacerebbe collaborare?
ALBERTO POPOLLA: «Un musicista con il quale ci piacerebbe collaborare è Marc Ribot, sia ovviamente per il suo valore specifico, che per il desiderio e la curiosità di integrare il suono di una chitarra elettrica nella tessitura essenzialmente acustica del gruppo. Un’ esperienza musicale di notevole interesse in questi ultimi anni mi sembra sia Snakeoil di Tim Berne. Oscar Noriega è un clarinettista che mi piace molto».
Cosa ascoltano i Roots Magic in queste settimane?
ALBERTO POPOLLA: «The Necks, Drive By e Eric Schaefer, Kyoto mon Amour».
ERRICO DE FABRITIIS: «, Paul Motian, Monk in Motian, e Julius Hemphill, Blue Boye».
GIANFRANCO TEDESCHI: « Bela Bartók, String Quartets, e l’Hampton Hawes Trio».
FABRIZIO SPERA: «Shabazz Palaces e Olu Dara & Phillip Wilson, Esoteric».
Quali i prossimi progetti dei Roots Magic?
ALBERTO POPOLLA: «Qualche mese fa abbiamo fatto un bellissimo lavoro in collaborazione con Ab Bears e Ig Henneman, e sicuramente ci piacerebbe continuare a mettere alla prova il nostro repertorio anche con altri musicisti. In ogni caso al momento siamo impegnati nella promozione di Last Kind Words e allo stesso tempo nell’elaborazione di nuovo materiale per un prossimo nuovo repertorio».