La riscoperta e la rilettura della cultura e della musica afro-americana è al centro del nuovo album dei Roots Magic. Ne parlano due componenti della band, Alberto Popolla e Fabrizio Spera
Un avventuroso viaggio nella cultura afro-americana. Protagonisti sono i Roots Magic, un collettivo di musicisti Jazz di stanza a Roma, che negli ultimi anni ha sviluppato un proprio preciso percorso artistico, profondamente radicato nell’eredità della musica afro-americana, in una fusione coerente tra le radici che affondano nel blues ancestrale più antico e rurale (il blues del Delta di Charley Patton, Skip James e Blind Willie Johnson) e si sviluppano lungo le coordinate di una “tradizione di avanguardia” a cavallo tra sperimentazione e free jazz, che parte da lontano, dagli anni Sessanta e Settanta lungo il percorso tracciato da figure storiche come quelle di Eric Dolphy e Ornette Coleman, Sun Ra, l’Art Ensemble of Chicago, Julius Hemphill, la cui influenza si estende fino ai giorni nostri.
In occasione della pubblicazione del loro quarto album – Old Long Road (etichetta Clean Feed) – abbiamo incontrato Alberto Popolla, clarinettista e polistrumentista, e Fabrizio Spera, batterista, membri fondatori della band sin dall’ormai lontano 2014.
La formula costitutiva della band, ovvero quella di mescolare il blues rurale delle origini con il jazz contemporaneo, sembra proseguire in questo nuovo disco. Quali sono le novità in questo nuovo lavoro?
La prima novità rispetto al passato nasce da un nuovo approccio compositivo – racconta Fabrizio Spera – mentre nei tre dischi precedenti la maggior parte dei brani era costituita da rivisitazioni o riscritture di altri compositori, in questo nuovo album abbiamo finalmente raggiunto un nuovo equilibrio tra i pezzi originali, a firma collettiva dell’intero gruppo, e le reinterpretazioni di brani altrui.
In particolare – sottolinea Alberto Popolla – la linea di continuità con i lavori precedenti riguarda il nostro approccio complessivo non solo alla musica, ma a tutta la storia politica, sociale e culturale del popolo afro-americano in tutte le sue innumerevoli sfaccettature.
Infatti già il precedente album (Take a Root Among The Stars del 2020) riportava uno specifico omaggio alla scrittrice Octavia E. Butler, e anche in questo nuovo lavoro ci sono diversi brani originali dedicati a personalità letterarie come Tony Morrison, Z.Z, Pacher e Benjamin Zephaniah, giovane poeta, scrittore ed attivista britannico di origini giamaicane.
Altri brani originali hanno invece riferimenti più specificamente, ma non esclusivamente, musicali, come “Blue Lines” dedicato alla figura fondamentale di Muhal Richard Abrahams, che oltre che musicista, è stato operatore culturale e sociale, vero faro e catalizzatore di tutta la scena musicale dell’avanguardia Jazz a Chicago a partire dagli anni Sessanta e Settanta come fondatore dell’associazione Aacm e mentore dell’Art ensemble of Chicago. “Amber” è invece dedicato al violoncellista Abdul Wadud, esponente storico delle avanguardie jazzistiche.
Un’operazione che sottolinea ancora una volta come il legame con le radici del blues resta il “centro di gravità permanente” da cui partire per il futuro.
Come detto – prosegue Fabrizio –noi facciamo continuo riferimento al blues in senso lato, ovvero a tutta la storia della cultura afro-americana, e ripercorrere e riprendere i fili di quella storia resta per noi un’esigenza fondamentale. Inoltre – prosegue Alberto – abbiamo sentito l’esigenza di aprire finalmente una porta verso l’universo femminile, andando a recuperare la figura della grande Bessie Smith – “l’Imperatrice del blues” – con il brano “Long Old Road”, che dà il titolo all’album, di cui è autrice oltre che straordinaria interprete. Si tratta quindi di un passaggio per noi assai significativo, in quanto per la prima volta inseriamo in repertorio un brano che fa riferimento ad una fase del blues jazzistico urbano già più evoluto rispetto al blues rurale cui abbiamo sempre fatto finora riferimento.
Il gruppo, nato come quartetto, con i fondatori – Alberto Popolla ai clarinetti, Enrico De Fabritiis ai sassofoni, Gianfranco Tedeschi contrabbasso e Fabrizio Spera alla batteria – nel corso degli ultimi dischi si è spesso allargato a musicisti ospiti, ed ora si presenta ormai stabilmente come un sestetto, con Eugenio Colombo al sax soprano e flauto e Francesco Lo Cascio al vibrafono. Come è avvenuto questo cambiamento?
L’interesse e l’apertura all’inserimento di musicisti ospiti – ricorda Fabrizio – sono sempre stati presenti nei nostri dischi, anche se in maniera occasionale. In particolare, nel disco precedente, nel brano di apertura (“Frankiphone Blues”) è avvenuto l’inserimento di Eugenio Colombo e Francesco Lo Cascio.
Va sottolineato – aggiunge Alberto – che la presenza di due nuove voci ha creato un nuovo suono complessivo del gruppo, sicuramente più aperto e con una line-up dei fiati più ampia e variegata, grazie alla presenza di Eugenio, figura storica dell’avanguardia jazzistica in Europa, che con il suo sax soprano e flauto ha fornito nuovi colori all’ensemble.
L’altra grossa novità è, per la prima volta, l’inserimento di uno strumento armonico che sorregge le linee melodiche, come il vibrafono di Francesco Lo Cascio.
La presenza di flauto e vibrafono inoltre crea un giusto mix con il suono più secco e ruvido del quartetto originale; pertanto, questa nuova varietà timbrica è in grado di addolcire il suono del gruppo, aprendo nuove strade e nuove prospettive alla nostra musica.
Inoltre l’idea del sestetto è anche legata ad un evento – il Festival di Lisbona dell’agosto 2021 – per il quale l’organizzazione del festival aveva specificatamente richiesto questa formazione, e quindi tutto il lavoro fatto insieme per poter amalgamare il gruppo ha contribuito a creare quella sintonia umana, oltre che artistica, che ha trasformato definitivamente il sestetto in un gruppo ormai stabile.
L’Africa, come elemento ritmico vitale, resta una delle fondamentali fonti di ispirazione nella vostra musica, come avete approfondito la conoscenza delle radici africane?
In realtà – chiarisce Fabrizio – tutti noi ci siamo avvicinati alla musica di origine africana attraverso il jazz ed in generale attraverso l’approccio all’Africa che ha avuto tutta la tradizione afro-americana. Come sappiamo i jazzisti nero-americani, fino agli anni Cinquanta-Sessanta, hanno descritto e cantato un’Africa mai vista veramente da vicino, anzi fino agli anni Cinquanta hanno vagheggiato in maniera spesso fantasiosa un’Africa immaginaria e di fatto irreale, a volte addirittura un’Africa “da cartolina”, anche se con esiti artistici altissimi, basti pensare al leggendario “jungle sound” dell’orchestra di Duke Ellington, che a ben vedere di autenticamente africano aveva solo un appeal esotico ed estetizzante. Solo a partire dalla fine degli anni Sessanta – aggiunge Alberto – quando i jazzisti neri più impegnati tentarono una sorta di “ritorno all’Africa”, si resero conto che il divario culturale creatosi nell’arco di tre secoli, dai tempi della schiavitù ad oggi, aveva creato una distanza ormai difficilmente colmabile.
C’è un rinnovato interesse nell’evoluzione del jazz di oggi, dovuto soprattutto ad una iniezione di vitalità e di riscoperta delle radici etniche che sta caratterizzando ad esempio la nuova scena caraibico – inglese con artisti come Shabaka Huthcings o Anthony Joseph. Cosa pensate di queste nuove tendenze?
Anche se il paragone può essere corretto, in verità – precisa Fabrizio – noi ci siamo sempre mossi e continuiamo a muoverci autonomamente in maniera istintiva e spontanea, senza sentirci per questo parte di questo o quel movimento.
Non solo in Inghilterra – precisa Alberto – ma anche in America c’è un ampio movimento di riscoperta del “groove” e dell’approccio ritmico “africano”, e in questo senso potremmo definirci un po’ antesignani di questa tendenza che noi ormai perseguiamo dal 2014.
Inoltre – prosegue Alberto – va sottolineato che il blues rurale cui noi abbiamo fatto riferimento, storicamente è stato riscoperto a posteriori essenzialmente dai musicisti rock, mentre, salvo rarissime eccezioni, non è stato mai preso in considerazione in ambito jazzistico, probabilmente per la sua semplicità armonica, che i musicisti più “colti” giudicavano troppo “povera” per poter fornire spunti per uno sviluppo più complesso e sofisticato. In questo momento, senza falsa modestia, noi siamo gli unici ad aver avuto questo approccio diretto con le radici del blues del Delta.
Al di là del disco, la vostra musica è caratterizzata da un forte e coinvolgente impatto sonoro dal vivo.
È sicuramente vero – conclude Fabrizio – la nostra musica pur facendo riferimento a territori vicini al free jazz, mantiene sempre una cornice ritmico-armonica ben definita ed una certa “cantabilità” nell’esposizione dei temi. Ne abbiamo avuto conferma diretta un paio di anni fa al Busker Festival di Palermo, quando, sulla piazza del mercato della Vucciria, siamo riusciti a coinvolgere ed avere un riscontro entusiastico e del tutto inaspettato dal folto pubblico presente, un pubblico sicuramente al di fuori della cerchia dei classici appassionati di jazz.