A new interview by Sandro Cerini published on the October issue of MusicaJazz.
Il linguaggio universale del Blues all’incrocio con la Creative Music
Ci ritroviamo dopo quattro anni ed è passata molta acqua sotto i ponti. Qual è lo stato dell’arte del gruppo? Nel corso di questi quattro anni, grazie ad un lavoro costante sul repertorio, sentiamo di aver maturato un approccio compositivo più organico, a poco a poco, grazie soprattutto ai concerti abbiamo sviluppato un suono realmente di gruppo e un “insieme” finalmente capace di integrare dinamiche e caratteri individuali. In tutto ciò, quattro anni possono essere niente. Il tempo della ricerca e dell’indagine sono fattori difficili da misurare. Seppur consapevoli di muoverci in una società che richiede continui cambiamenti preferiamo muoverci, secondo una nostra direzionalità. Indaghiamo modelli passati per leggere e interpretare il mondo che ci circonda.
Nella chiusura del precedente album, «Last Kind Words», una versione «quasi dub» di Bermuda Blues, di Henry Threadgill, sembrava preludere a un cambio di prospettiva. Mi sembra invece che le scelte artistiche siano rimaste sostanzialmente immutate. È cosi? È curioso che quel brano possa aver fatto pensare a possibili cambi di rotta. Forse per via degli effetti dub? In realtà si trattava di un brano molto coerente al nostro repertorio, dove il dub non rappresentava altro che una colorazione, un elemento stilistico suggerito dal gusto per certe sonorità di provenienza Giamaicana. Qualcosa che avremmo approfondito volentieri nel nuovo disco. L’album prevedeva infatti una versione, questa volta dichiaratamente dub, di un brano di Lee Perry, poi eliminato per problemi di durata, e ora pubblicato su Bandcamp. Tuttavia, pensiamo che il brano Karen On Monday, a cui è affidata la chiusura del nuovo album, lasci intendere aperture maggiori che non quelle di Bermuda Blues. Il pezzo di John Carter, nella nostra interpretazione «astratta», possiede infatti caratteristiche strutturali effettivamente inesplorate nei precedenti lavori.
In effetti ciò è vero. Che senso dobbiamo attribuire a questa ricerca di astrazione? E invece, l’approccio «giamaicano» di Cloak And Dagger deve intendersi come una via ancora possibile, o un qualcosa di definitivamente rinunciato?
L’approccio improvvisativo, adottato in “Karen on Monday” è parte integrante del nostro background. Tutti noi in periodi diversi abbiamo praticato un tipo di improvvisazione svincolata da idiomi Jazzistici e più protesa all’esplorazione di altri parametri, suono, timbro, spazio, rumore… in definitiva un’ulteriore carta ancora tutta da giocare nell’ambito di Roots Magic. L’inserimento dell’elemento “dub è invece frutto di una nostra passione per quel tipo di musica. Qualcosa che con il dovuto equilibrio e secondo il nostro solito approccio graduale alle cose, potrà ancora trovare spazio nella musica del gruppo.
Sembrerebbe quindi che tra le due anime che animavano il quartetto, quella improvvisativa e quella della forma, la seconda abbia alla fine definitivamente prevalso. Che ne pensate?
Ci sembra che almeno fin qui il rapporto fra composizione e improvvisazione abbia mantenuto un equilibrio più o meno costante. Fin dall’inizio la nostra proposta si è basata essenzialmente su un insieme di brani composti e parti improvvisate, sempre ben ancorate alla forma. Tuttavia, un’analisi più accurata dei tre lavori potrebbe rivelare che l’eventuale spostamento di equilibrio fra queste due componenti andrebbe però a favore dell’improvvisazione. Rispetto agli esordi, le forme dei brani sono ora più dilatate, e le zone aperte al loro interno sono proporzionalmente aumentate fino a culminare nel già citato Karen On Monday, un brano sostanzialmente improvvisato, e come abbiamo appena visto, secondo un approccio diverso.
I crediti di copertina sottolineano che in dei brani sono comprese parti composte da voi. Non è un procedimento del tutto usuale. Potete spiegare ai lettori come ne avete garantito l’integrazione?
Le nostre riletture hanno sempre incorporato elementi originali. L’integrazione di materiali diversi è di fatto un punto nodale del nostro lavoro. Una volta trascritte e arrangiate le parti tematiche, passiamo molto tempo a manipolare i materiali a disposizione. Semplicemente, questa volta, ci è sembrato giusto riconoscere quel lavoro accreditandolo fra le note del disco. Si tratta di una modalità sviluppata all’interno della nostra pratica compositiva e non escludiamo che in futuro si possa estendere in direzione di un repertorio sostanzialmente originale.
Non temete il rischio di una accentuata «repertorizzazione», soprattutto a fronte del continuo affinamento della vostra formula di gruppo e del costante elevamento delle competenze performative?
Non crediamo che l’indagine approfondita di un repertorio, nel nostro caso il Blues delle origini e il Jazz creativo degli anni Sessanta e Settanta, sia un limite. Crediamo invece che sia una grande ricchezza e siamo anche certi che l’affinamento dei modi e l’approfondimento dei materiali non possono che rafforzare la forma e il contenuto del nostro lavoro. Questa è un’esperienza che ci ha fatto crescere in questi anni e probabilmente continuerà a farci crescere in futuro.
Qual è il senso reale di una proposta come la vostra, oggi? In fondo sono sentieri che la «creative music» aveva già in gran parte battuto…
Verrebbe da chiedersi, chi, oggi, può conoscere il senso reale di una proposta. Quello che possiamo dire con franchezza è che i Roots Magic continuano a fare le cose in cui credono. Certamente non siamo i primi a trovare connessioni fra la radice Blues e le forme avanzate del Jazz creativo. Sappiamo di muoverci in un sentiero battuto, eppure sentiamo di aver trovato una nostra voce capace di distinguersi da altre. C’è da dire che il nostro particolare interesse per certe figure «arcaiche» come Charlie Patton o Skip James non ha veri e propri precedenti in ambito jazzistico. Se questi musicisti hanno lentamente acquisito un riconoscimento nel contesto della scena Folk-Blues e in alcuni casi del Rock, sono ancora del tutto ignorati negli ambiti del colto mondo del Jazz. In questi anni abbiamo notato come l’accostamento di certi nomi a quelli del Free Jazz storico provochi spesso degli interessanti cortocircuiti nel pubblico di derivazione Jazzistica.
Siete quindi fortemente convinti che la fusione di forme espressive proprie del blues rurale, trasposte nei nuovi contesti urbani e poi giunta a noi, sia una sorta di formula universale, valida per chiunque voglia proporla (in altre parole, che essa non richieda un radicamento culturale proprio e un vissuto)?
Nel nostro primo disco, al fine di chiarire la nostra posizione, inserimmo una citazione da Evan Parker: «le mie radici sono nel mio giradischi». Ovvero: siamo cresciuti attraverso l’ascolto di questa musica e ne sentiamo forte l’influenza al punto al punto di riconoscerci come culturalmente radicati in quella tradizione. Nel 2018, con nostra grande sorpresa, siamo stati invitati al Juke Joint Festival di Clarksdale in Mississippi, uno dei luoghi chiave nell’evoluzione di questa musica. Per intenderci, il luogo del leggendario incrocio dove Robert Johnson incontrò il diavolo in persona, a un passo dalle piantagioni Dockery dove è cresciuto Charlie Patton. In quei luoghi, a confronto con un pubblico nato in quella cultura, abbiamo potuto verificare l’autenticità della nostra proposta e abbiamo avuto la prova, ce ne fosse bisogno, che il Blues è di fatto un linguaggio universale.
Nel proporre un repertorio siffatto, esiste un aspetto che in qualche modo si possa definire di «committenza»? Per essere più chiari: si guarda a un pubblico?
Nel tempo abbiamo scoperto che la nostra musica è capace di coinvolgere un pubblico ampio e trasversale, e per noi questo è motivo di grande soddisfazione. Regalare emozioni anche a coloro che non sono necessariamente cultori di Blues, né tanto meno di Free Jazz, ci rende orgogliosi. Come ha detto Basilio Sulis, direttore del festival di Sant’Anna Arresi, la nostra proposta sembra avere una funzione propedeutica, avvicina il pubblico, lo rende curioso e di conseguenza apre mondi sconosciuti.
E nei brani in cui vi siete misurati con la necessità di un arricchimento timbrico (cosa già avvenuta in tutti i vostri dischi) in qualche modo vi siete sempre rivolti a compagni di viaggio già familiari. Non c’è l’esigenza di confrontarsi con esperienze del tutto diverse dalle vostre?
Idealmente abbiamo sempre sostenuto che una collaborazione dovrebbe essere motivata da rapporti umani oltre che artistici. Un principio già di per sé selettivo, a cui si aggiungono alcune difficoltà di tipo organizzativo. Data la musica del gruppo, un qualsiasi inserimento, di uno o più elementi esterni, implicherebbe un tempo di prove necessario al riadattamento di temi, arrangiamenti e strutture. Da qui, la necessità di un’organizzazione a supporto dell’operazione. In fondo Roots Magic è una piccola comunità che ha bisogno di lavoro costante e nel tempo, è per questo che generalmente ci rivolgiamo a persone vicine e che sappiamo disponibili. Ovviamente, ciò non esclude la possibilità di un tipo di collaborazione più complessa, a patto che questa venga sposata e supportata dalla struttura di un festival o di una rassegna.
Come avvengono i «recuperi» di ciò che entra nel vostro repertorio? È un fatto di ascolti abituali, che si trasfondono nella vostra esperienza di musicisti, oppure esiste in qualche modo uno spunto per così dire «filologico», che si fa specifica ricerca del particolare?
Generalmente si parte da suggerimenti dei singoli, seguiti poi da ascolti e riflessioni collettive. C’è una grande sintonia nel lavoro di ricerca del materiale, e l’intento filologico è assolutamente secondario. Prima di tutto viene il piacere di suonare e arrangiare alcuni brani e rendere così omaggio a certi autori.
E cosa comprendono i vostri ascolti attuali?
Alberto Popolla: ora sto ascoltando «Three», il nuovo lavoro dei Necks, «The Universe Inside» dei Dream Syndicate e «The Fantastic Mrs. 10» di Tim Berne’s Snakeoil. Gianfranco Tedeschi: sto ascoltando un cofanetto di Sam Jones con gruppi a suo nome e un violista compositore ed improvvisatore del 1600, Captain Tobias Hume. Errico De Fabritiis: i primi tre che mi vengono in mente sono John Coltrane «Concerts In Japan», Betty Davis «They Say I’m Different» e James Brandon Lewis «An Unruly Manifesto». Fabrizio Spera: Ted Curson «Urge», Horace Tapscott «Ancestral Echoes», Irreversible Entanglement «Who Sent You», Kim Suk Chul Ensemble «Shamanistic Ceremonies of the Eastern Seaboard», Hermeto Pascoal «Viajando Com O Som». Prince Far I “Cry Tuff Dub Encounter vol.3
Quali sono i vostri programmi futuri, anche come singoli?
Abbiamo da poco iniziato a lavorare su nuovi materiali in gran parte originali. Ma con un disco appena pubblicato, va da sé che la speranza maggiore sia quella di poter riprendere a suonare dal vivo, l’attività che più di tutte rappresenta la ragion d’essere di questa musica.
Alberto Popolla: appena prima del lockdown avevo messo in piedi un’orchestra di improvvisatori, Anarres Improrkestra, un gruppo che stava lavorando bene ed era pronto per alcuni concerti poi annullati a causa dell’emergenza. E poi c’è il mio progetto in solo, Really The Blues, tra libera improvvisazione e rilettura di classici del Blues e della musica afroamericana in generale.
Gianfranco Tedeschi: i miei programmi sono semplici cercare di vivere bene, continuare a studiare e continuare a fare concerti.
Errico De Fabritiis: vorrei citare Kammermusik, gruppo di improvvisazione con Giancarlo Schiaffini e Luca Tilli, con cui siamo al secondo lavoro per Setola di Maiale. Tengo molto anche al neonato progetto Vite da armadio, in cui oltre a suonare interpreto dei miei testi insieme a Fiora Blasi, attrice, e Giusi Bulotta, contrabbassista.
Fabrizio Spera: Oltra al gruppo Ossatura, a inizio anno ho ripreso a lavorare in trio con Tim Hodgkinson e Gandolfo Pagano. Prosegue poi la collaborazione con Marco Colonna col recentissimo Red Planet insieme a Edoardo Marraffa e Marco Zanotti.
Sandro Cerini